Silvia ha 40 anni, è madre di due bimbi e vive in una bella città del nord Italia. Marco, suo fratello, ha 34 anni ed è nato con una rara sindrome genetica che comporta deficit intellettivo, scarsa forza fisica e degenerazione della vista. È un adulto ma il suo sviluppo mentale è simile a quello di un ragazzo di 13. Silvia è dunque una ‘sibling’, oggi consapevole di cosa questo abbia significato per lei, per questo ha voluto condividere qui la sua esperienza, scrivendocela, perché parlarne la emoziona ancora troppo.
“Quando è nato mio fratello avevo già 6 anni. Le difficoltà iniziarono già nella gravidanza: ricordo mia madre a letto e il tavolino che usava per mangiare. Temo di non ricordare se sapessi o no il motivo esatto di quella immobilità. Ma mi rimase impressa, tanto che in seguito, quando studiai le teorie dell’evoluzione, pensai:
‘Forse, secondo la Natura, mio fratello non doveva nascere e quella gravidanza difficile era stato il segno’.
Il primo ricordo strano di mio fratello è molto nitido: lui stava seduto vicino a un mobile, che aveva un ripiano aperto con i suoi giochi. E dondolava. Avanti e indietro. Non avevo mai visto un bambino comportarsi così. Sentii parlare di autismo e di movimenti automatici.
Mia madre, finito l’anno di maternità, non rientrò al lavoro. Lo avrebbe fatto più tardi, quando Marco avrebbe compiuto 6 anni, ma chiese un contratto part-time; in ogni caso, di lì a pochi anni, sarebbe rimasta a casa definitivamente. Questo ha generato in me la convinzione che fossimo poveri, per cui non ho mai osato chiedere molte cose. Non mi accorsi che Marco aveva superato abbondantemente l’anno di età e ancora non camminava. Poi un giorno la nostra splendida pediatra ebbe un’intuizione: “Forse questo bambino non ci vede bene…” Marco aveva 2 anni, quando ebbe il suo primo paio di occhiali. Pensavamo tutti che quei piccoli aggeggi rotondi sarebbero stati la soluzione a molti problemi, che Marco da quel momento avrebbe recuperato tutte le tappe della crescita, rispetto alle quali era già visibilmente in ritardo. Mia madre pensava: “Be’ se pure in ritardo, prima o poi arriverà!” Ora sappiamo che non è così.
Per fortuna, però, Marco uscì dal mondo segreto che si stava creando e smise di dondolare. Mi dissi: “Stava diventando autistico, ma l’abbiamo salvato!!!”. Ricordo dottori, malattie frequenti, psicologi… Io che chiedo a un medico: “E io cosa posso fare per il mio fratellino?” e lui che mi spiega semplici attività.
Siccome Marco era sempre malato, i miei nonni, che passavano l’inverno in Liguria, lo portarono via con loro. Ogni sabato partivamo con la macchina per raggiungerli e tornavamo la domenica sera. Per passare il tempo del viaggio, inventavamo storie sui nomi delle gallerie (e per andare in Liguria ce ne sono moltissime!): Tana della Volpe, Ciutti, Pero… Ora che sono madre, penso che sarei impazzita, a separarmi a quel modo da mio figlio così piccolo!
Mia madre si appoggiava moltissimo a mia nonna, per cui non ho mai dovuto stare da sola o in ospedale ad aspettare Quello che forse è mancato è stata una persona di fiducia esterna alla famiglia, magari qualcuno dell’oratorio, non tanto per confidarmi, perché allora ritenevo di non avere proprio un bel niente da confidare, quanto piuttosto per stimolarmi a esprimermi un po’ di più, per farmi capire che anche io potevo avere qualcosa da dire e potevo dirlo.
Tuttora, nonostante mi ritenga una persona realizzata, sono tremendamente imbranata nei rapporti sociali, sto benissimo da sola, fuggo i discorsi frivoli delle altre donne. E mi stupisco grandemente che i miei colleghi si ricordino il mio nome!!!
Ricordo i sensi di colpa in famiglia, per la consapevolezza che mio fratello era nato così a causa di un gene trasmesso da loro. Credo che mio padre non l’abbia digerita tuttora
Poi la pediatra ebbe un sospetto: forse mio fratello aveva una sindrome genetica; spedì i miei dallo specialista e lui confermò i sospetti: era una sindrome rarissima, di cui quasi nessuno aveva sentito parlare in Italia. Ricordo i sensi di colpa in famiglia, per la consapevolezza che mio fratello era nato così a causa di un gene trasmesso da loro. Credo che mio padre non l’abbia digerita tuttora. Una volta, un caro cugino mi disse: “Gli sta addosso come un’aquila” e intendeva che, in pubblico, non toglieva gli occhi di dosso da Marco ed era sempre pronto a fargli notare se sbagliava qualcosa. Tuttora è così. I miei genitori mi spiegarono molto bene la situazione, ma mi proibirono di parlare di quella ‘malattia’ con chiunque. Col tempo mi convinsi di averla un pochino anch’io, questa malattia, anche se in forma recessiva. Per fortuna mio fratello non ha un aspetto vistosamente diverso, né comportamenti eccessivamente insoliti, per cui non mi sono mai sentita in imbarazzo in sua presenza. Forse, però, questo dipende anche dal fatto che non abbiamo frequentato gli stessi ambienti sociali, visto che abbiamo una forte differenza di età: non siamo mai stati nello stesso istituto scolastico, né nello stesso gruppo di catechismo o di sport.
Come tante persone il cui problema principale è cognitivo, per accorgersi della disabilità di Marco bisogna parlarci per un po’, prima di accorgersi dei suoi argomenti circoscritti e ripetitivi. Ha molte ansie: dei rumori forti (motori, scoppi, pianti, ma anche palloncini) o di arrivare tardi a un appuntamento. Chiede continuamente conferme sul suo comportamento. E per fortuna, nel pacchetto della sindrome, è incluso anche “carattere socievole”!
Ho vissuto tutta la giovinezza pensando di essere terribilmente cattiva perché ero gelosa. Marco veniva accompagnato ovunque, io dovevo organizzarmi da sola,
Non ricordo esattamente per cosa fossi gelosa di mio fratello, ma devo esserlo stata. E tremendamente, anche! A dire il vero, lo sono tuttora e non riesco a scrivere queste righe senza piangere. Probabilmente ai tempi devo essermi confidata con mia madre su questo aspetto e ricordo le sue parole di risposta: “Non devi essere gelosa, perché il tuo fratellino ha più bisogno di te. Tu sei fortunata, puoi fare tutto. Lui ha bisogno di noi e noi dobbiamo pensare a lui più che a te, perché lui ha più problemi”. Ma come si fa a impedire alla gelosia di sorgere? Ho vissuto tutta la giovinezza pensando di essere terribilmente cattiva. Un’altra cosa che mi ha sempre dato fastidio è che mentre mio fratello veniva (ovviamente) accompagnato ovunque, quando invece ero io a chiedere un passaggio la risposta era costante: “Con chi vai e con chi torni?” Se avevo un nome, perfetto, avrei potuto anche stare in giro fino al mattino (cosa che feci regolarmente da quando presi la patente fino al matrimonio); se no, niente da fare. Pochi anni fa, mia madre mi confessò che quei rifiuti erano dovuti alla loro stanchezza, a cui non potevano sottrarsi quando invece si trattava di Marco. E si mostrò molto sollevata dall’idea che avevano avuto, di farmi frequentare l’oratorio nei weekend: mentre io ero là, infatti, loro potevano rilassarsi, poiché Marco per fortuna non necessitava di grandi attenzioni nel quotidiano e io non c’ero. Quando commentai che ero stata quindi parcheggiata in oratorio, mia madre rispose: “Ma almeno eri in un ambiente educativo sicuro”. Ricordo infine la questione scatenata dalla famosa patente: sempre pensando che fossimo poveri, non volli iscrivermi a scuola-guida, per cui avevo necessità di qualcuno che mi insegnasse a guidare. Dovevo pregare mia madre in cinese per accompagnarmi a guidare nei parcheggi vuoti, perché lei aveva paura. Quando si trattò, invece, di vincere le sue paure verso i cani e prendere un cucciolo per mio fratello (esperimento di pet-therapy poi miseramente fallito), lo fece senza troppe remore.
Una volta i miei genitori uscirono e ci lasciarono a casa soli. Mio fratello doveva avere meno di 6 anni, per cui io ne avevo meno di 12. Lo lasciai a guardare la tv e me ne andai in camera mia. Quando i miei tornarono, trovarono che Marco aveva vomitato e poi si era addormentato in mezzo allo sporco. Ricordo tuttora la sfuriata, ma oggi mi chiedo se davvero i miei genitori ce l’avessero con me o piuttosto con loro stessi
La maggior parte di noi siblings, chi più chi meno, è il ritratto del bravo bambino. “Non vorrei disturbare” è tuttora il mio motto. Conosco molti siblings con terribili sensi di colpa per essere usciti dalla casa di origine
Uno dei problemi che secondo me emerge quando in casa c’è un figlio con disabilità è che i genitori rischiano di non crescere. Mi spiego: solo alcuni siblings reagiscono con aggressività alla situazione, diventando ragazzi difficili; la maggior parte di noi è, chi più chi meno, il ritratto del bravo bambino. Io ne sono un esempio. “Non vorrei disturbare” è tuttora il mio motto e “Chi fa da sé fa per tre” è il mio stile di vita. Quando arriva l’adolescenza, i genitori non hanno modo di evolversi, di capire che i figli stanno diventando persone altre, perché uno di loro resterà per sempre dipendente da loro, anche economicamente; gli altri, invece, tenderanno a evitare il conflitto, a “non dare un dispiacere a mamma e papà”. Quindi è molto difficile emanciparsi. Non molto tempo fa, poiché avevo manifestato delle difficoltà economiche, mio padre mi disse: “D’altronde, sei tu che ti sei voluta sposare…” Conosco molti siblings con terribili sensi di colpa per essere usciti dalla casa di origine, perché si sentono (o gli viene proprio detto!) dei figli “cattivi”, ingrati, che abbandonano il padre e la madre proprio quando essi si avviano alla vecchiaia.
Dallo psicologo ci sono andata, a 28 anni, dopo la nascita del mio primo figlio, di mia iniziativa. Ne saltò fuori un conflitto irrisolto con i miei genitori, non con Marco. Poi i gruppi di siblings adulti mi hanno dato la consapevolezza di me.
Mia madre mi ha raccontato di avermi chiesto, a volte, se volessi parlare con uno psicologo, ma che io gli risposi sempre di no, che non ne vedevo il motivo. Certamente: tra tutte le persone che si rivolgono a uno psicologo, quanti ci vanno di loro iniziativa e quanti su consiglio di un amico? Comunque, dallo psicologo ci sono andata, eccome! Ma a 28 anni, dopo la nascita del mio primo figlio. E ci andai di mia iniziativa, perché la mia vita non mi piaceva più, mi sentivo prigioniera, ma pensavo che una persona della mia cerchia di affetti avrebbe fatto solo discorsi morali sui doveri di una madre. Saltarono fuori due cose: la prima, che avevo “tirato troppo la corda” e stavo male perché stava per rompersi; la seconda, un conflitto con i genitori (e non con Marco, come ci si poteva aspettare, visto che è stata la sua nascita a scombussolare la famiglia). Ebbene, questo secondo conflitto è tuttora irrisolto, ma grazie alla psicoterapia ho imparato a conoscere le mie armi di difesa e usarle per rinchiuderlo (quasi) prontamente quando salta fuori. Insomma, a conviverci, a fare in modo che resti un problema circoscritto e che non strabordi in altri ambiti della mia vita. Che è lo scopo principale della psicoterapia, se non erro.
Ma c’è un aspetto psicologico secondo me più importante dei conflitti, della gestione della sofferenza, ecc., che è la consapevolezza di sé. E questa mi è arrivata dai percorsi di sostegno per sibligs adulti. Ho imparato a vedere anche tutte le mie capacità, che ho acquisito negli anni, ma che non sapevo di avere. So fare un sacco di cose, dal tingere i vestiti a cucinare, dal cambiare una gomma a montare un mobile. Mi reputo una persona forte, determinata. Mi piace dire che non ho paura di nessuna situazione. Perdo la testa molto raramente, mi adopero per cercare soluzioni, nessun ostacolo mi sembra insormontabile. Non mi piace giudicare gli altri, perché penso che tutti abbiano il loro dolore segreto. Tratto tutti con rispetto, perché penso che siamo solo povere creature, tutte sulla stessa barca. E penso che gli unici beni per cui valga la pena preoccuparsi siano i figli e la salute. Tutto il resto è solo un sassolino nel cammino della vita e basta fermarsi un momento per togliersi il fastidio.
I miei genitori hanno fatto la scelta di non avere altri figli, dopo Marco. Dovrò badare ai miei genitori anziani come se fossi figlia unica, ma in realtà avrò anche un fratello di cui occuparmi.
La mia vita oggi è molto soddisfacente. Ho sempre voluto una famiglia mia, per cui mi sono adoperata per finire l’Università, trovare un lavoro. Mi sono sposata e ho 2 bambini. Ovviamente, come moltissimi siblings, faccio un lavoro di cura verso gli altri, cioè l’insegnante. I miei genitori mi sostengono moralmente in molte mie iniziative. Abbiamo sempre pensato di vivere vicino alla mia famiglia di origine, pensando al futuro. Ora che siamo effettivamente vicini di casa, non so se sia stata davvero una buona idea!!! Forse, avremmo potuto fare ognuno la propria vita e poi pensare ad avvicinarsi tra qualche anno. Dovrò badare ai miei genitori anziani come se fossi figlia unica, ma in realtà avrò anche un fratello di cui occuparmi. I miei genitori hanno fatto la scelta di non avere altri figli, dopo Marco, per timore di un secondo figlio con la stessa sindrome. Chissà, se avessero tentato la sorte forse ora avrei un altro familiare su cui contare. Per fortuna Marco è in grado di curare la sua persona in autonomia (seppure con supervisione). Con il tempo ha perso alcune abilità che invece aveva in adolescenza, per cui non penso sarebbe più in grado di cucinarsi un pasto. Credo che, se dovesse rimanere solo, non avrebbe bisogno di assistenza continua, ma certamente di una persona che si occupasse giornalmente della casa, spesa, bucato, ecc. I miei genitori si fanno tanti problemi per “costruirgli un patrimonio”, in modo che in futuro non debba “pesare sulla mia famiglia”. Quello che spesso i genitori non pensano è che la maggior parte dei sibling non si sognerebbe mai di abbandonare il fratello e che il problema, a meno di eccezionali esigenze terapeutiche, non sarà economico, ma di tempo e preoccupazioni da dedicare. Quando sarò vecchia, non ho intenzione di lasciare Marco in una casa con una badante e io stare in un’altra con mio marito: quando i figli saranno grandi, che sarà mai avere mio fratello in giro per casa? Anzi, sarà più facile prendersene cura! E non sarà certo il costo di vitto e alloggio a mandarmi in rovina.