Alessia ha 32 anni e vive a Napoli con suo marito. Lavora come terapista della riabilitazione psichiatrica presso la Asl. Fino a due anni fa, invece, abitava a Campobasso, dove è nata, insieme a sua madre e suo fratello Emanuele. Emanuele, come prima suo padre, ha la malattia di Huntington, una patologia rara, ereditaria e neurodegenerativa, che interessa soprattutto il sistema nervoso. Nota in passato come Corea di Huntington, la malattia prende il nome dal medico americano che l’ha descritta per la prima volta negli anni Settanta dell’Ottocento. Tra i sintomi più evidenti, vi è la presenza di movimenti involontari simili a una danza incontrollata, la perdita delle capacità cognitive e l’insorgenza di disturbi psichiatrici. Si stima che, in Italia, la malattia interessi tra le 6 e le 7mila persone, mentre i soggetti attualmente a rischio di ammalarsi sarebbero tra i 30 e i 40mila. I figli hanno il 50% di possibilità di ereditare la mutazione genetica dai propri genitori e dal 1994 esiste un test predittivo in grado di confermare o escludere la presenza della malattia, anche prima della sua manifestazione. Alessia, che ha perso suo padre due anni fa, oggi è vice presidente di NOI Huntington, la rete italiana dei giovani sostenuta dalla Fondazione Lirh-Lega Italiana Ricerca Huntington.
“Le prime avvisaglie si sono manifestate verso i 19 anni: diceva di sentirsi deconcentrato a scuola e di non riuscire a impegnarsi abbastanza quando faceva i compiti, ma noi sembrava un capriccio”
“All’età di 27 anni mio fratello Emanuele ha già la malattia di Huntington”, spiega Alessia. “Vive a Campobasso con mia madre, mio padre è morto 4 anni fa per la stessa malattia. Le prime avvisaglie si sono manifestate verso i 19 anni: diceva di sentirsi deconcentrato a scuola e di non riuscire a impegnarsi abbastanza quando faceva i compiti, ma noi non gli davamo peso. Ci sembrava un capriccio. Poi sono comparsi i sintomi motori, soprattutto tic al volto, movimenti incontrollati delle mani, difficoltà di equilibrio. E dopo un po’ ha deciso di fare il test”. Alessia ha scoperto l’esistenza della malattia di Huntington per caso, ma forse sarebbe più corretto dire che si è resa conto da sola e casualmente che gli strani comportamenti di suo padre avevano una causa e che questa causa si chiamava, appunto, Huntington. “Ero ancora una bambina”, racconta. “Mia madre non mi aveva detto nulla. Mi chiedevo perché mio padre avesse questi insoliti tic e un’andatura barcollante. La gente mi domandava se fosse ubriaco o se facesse uso di sostanze stupefacenti, fino a che un giorno ho trovato a casa una brochure informativa. E allora ho fatto due più due e ho capito tutto. Lo stigma però esiste ancora. Per questo con la nostra associazione stiamo chiedendo a tanti di togliersi la maschera e uscire allo scoperto”.
“Ho scelto di fare il test perché non riuscivo più a vivere nell’incertezza. E, quando è risultato negativo, ho provato un senso di colpa fortissimo: mio fratello era condannato e io mi ero salvata”
All’epoca in cui Alessia scoprì il nome della malattia di suo padre, sua madre sapeva già che si trattava di una patologia ereditaria. “Lo aveva scoperto dopo aver avuto due figli, me e mio fratello. L’Huntington rimane sempre una questione nascosta, la gente preferisce non dire nulla. Emanuele ha cominciato a manifestare i primi sintomi molto presto: non aveva neppure 20 anni rispetto a un’insorgenza media tra i 30 e i 40. Io invece sono stata fortunata: non ho ereditato la malattia. Ma decidere di fare il test non è stato semplice: si tratta di una scelta difficile, che non puoi fare da sola. Hai bisogno di un counselor o, comunque, di qualcuno che ti aiuti. Io ho scelto di farlo perché non riuscivo più a vivere nell’incertezza. E, quando è risultato negativo, ho provato un senso di colpa fortissimo. È una sensazione davvero strana: mi ero liberata dal dubbio, ma continuavo a soffrire perché mio fratello era condannato e io mi ero salvata. Per fortuna ci sono il suo coraggio e il suo sorriso a rendere me e mia madre felici e piene di speranza”.
“Emanuele è un ragazzo solare, intraprendente, tenace. Ha tantissimi obiettivi e, nonostante la malattia, non si dà mai per vinto. È molto spiritoso e fa tante battute, è un davvero un portento”
Se chiedi ad Alessia come descriverebbe suo fratello Emanuele, la sua voce si anima: “È un ragazzo solare, intraprendente, tenace. Ha tantissimi obiettivi e, nonostante la malattia, non si dà mai per vinto”, dice. “È molto spiritoso e fa tante battute, è davvero un portento, E con la sua forza ci infonde tanta fiducia, perché il futuro della ricerca è promettente”. Attualmente Emanuele non ha un lavoro, le sue condizioni di salute non glielo permetterebbero. “Non è completamente autonomo”, precisa Alessia. “Ciò nonostante ha tante passioni, soprattutto la lettura e i motori. In particolare segue la MotoGP e la Formula 1. Conosce ogni tipo di macchina”. Le vicende della sua famiglia hanno avuto un effetto sulle scelte personali, soprattutto per quanto riguarda gli studi. “Ho deciso di studiare Tecniche della riabilitazione psichiatrica perché ho sempre desiderato cambiare qualcosa intorno a me”, sottolinea. “Quando vedevo mio padre stare male, avevo l’istinto di volerlo salvare. La mia esperienza personale mi ha aiutato a percepire il lavoro in maniera più accogliente. Intendo dire che la mia storia familiare è stata importante per affrontare meglio il mio lavoro: mi posso reputare una persona serena, priva di stigmi e pregiudizi, con una mentalità realmente aperta”.
“Quando sono arrivati i risultati del test, mio fratello ha detto che lo sapeva già, ma voleva avere una conferma. Ha affrontato il responso in modo positivo, rimboccandosi le maniche”
Pensando al principio della malattia di suo fratello, Alessia chiarisce: “È cominciato tutto con una disattenzione a scuola, ma i sintomi classici dell’Huntington non si sono manifestati subito. Non c’erano neppure i movimenti coreici tipici della patologia. Non a caso, fino ad alcuni anni fa la malattia veniva chiamata Corea di Huntington. E la Corea nell’antica Grecia indicava, appunto, una danza corale. Ma quando Emanuele ha manifestato le prime difficoltà a scuola, noi non pensavamo alla malattia e le percepivamo piuttosto come la scusa di chi non ha voglia di studiare. È stato solo quando è comparsa la sintomatologia più classica, che ci siamo rivolti al professor Ferdinando Squitieri e, qualche tempo dopo, 5 anni fa, mio fratello ha deciso di fare il test. È risultato positivo, i sintomi erano ormai evidenti: Emanuele presentava tic facciali, movimenti incontrollati delle mani e andatura barcollante. Ero certa della risposta anche prima che il test confermasse la presenza della malattia: l’occhio diventa esperto e, in cuor mio, sapevo che il risultato sarebbe stato positivo, come infatti è stato. Quando sono arrivati i risultati, mio fratello ha detto che conosceva già la risposta, ma voleva avere una conferma. Ha affrontato il responso in modo positivo, rimboccandosi le maniche e seguendo per filo e per segno l’attività riabilitativa prescritta. E, soprattutto, non ha mai avuto paura a dire apertamente di avere questa patologia rara”.
“Avrei dovuto incoraggiarlo e invece era lui che incoraggiava me. Stavo male anche per me stessa, perché lui mi faceva da specchio: rivedevo i suoi stessi sintomi dentro di me”
“Il momento più difficile è stato proprio quando abbiamo ricevuto la conferma dal test”, prosegue Alessia. “Era il segno tangibile che la catena non si era spezzata. Io mi sentivo in colpa, quasi in debito nei confronti di mio fratello, perché lui era stato colpito e io risparmiata. Avrei dovuto incoraggiarlo e invece era lui che incoraggiava me. Stavo male anche per me stessa, perché lui mi faceva da specchio: rivedevo i suoi stessi sintomi dentro di me, avvertivo spasmi involontari e, se mi sentivo nervosa, lo attribuivo ai sintomi comportamentali della malattia. Allora mio fratello mi diceva: fai il test e ti sentirai più tranquilla. Così ho deciso di farlo, ma ho preferito non dirlo a nessuno: lo sapevano soltanto mia madre e mia zia. E poi quando il risultato ha dato esito negativo, ho provato un grandissimo senso di colpa. Puoi pensare quello che vuoi, ma alla fine per me solo una cosa era certa: lui sì e io no”.
“Quando la malattia comprometterà le funzioni cognitive e, finanche, l’autonomia di mio fratello, l’amore resterà sempre. Noi due non ci separeremo mai”
L’impegno di Alessia a favore delle persone colpite dalla malattia si esplica anche nel suo ruolo di vice presidente di NOI Huntington, la rete italiana dei giovani sostenuta dalla Fondazione Lirh-Lega Italiana Ricerca Huntington. “Sento l’esigenza di mettere in rete ragazzi che convivono, in prima persona o attraverso i loro familiari, con la malattia di Huntington”, spiega. “È una cosa che mi viene naturale e in cui credo molto. Fin dall’inizio avevo il desiderio di condividere la mia esperienza con altre persone. Poi l’idea è diventata un progetto e il progetto si è trasformato, infine, in una vera e propria associazione: nella fattispecie un’associazione formata da una quarantina di iscritti, che hanno deciso di fare rete. E la cosa bella è che anche mio fratello partecipa agli eventi che organizziamo”. Tirando le somme della sua esperienza, Alessia commenta: “Grazie alla malattia di mio fratello sono diventata una persona più consapevole. All’inizio era come vivere in un vortice: mio fratello era all’inizio del percorso e mio padre alla fine, non abbiamo avuto un momento di tregua. La malattia di mio padre e, successivamente, quella di mio fratello hanno contribuito a unirci come famiglia, anche se stavano succedendo troppe cose tutte insieme. Così, nonostante questo magone che mi porterò dietro tutta la vita, l’energia e la positività di mio fratello mi danno una carica fortissima. E poi il futuro è molto incoraggiante dal punto di vista della ricerca scientifica che, in questo momento, sta facendo passi da gigante. È in atto una sperimentazione molto promettente, che presto verrà introdotta anche in Italia. Penso che la vita di Emanuele sarà migliore di quella di mio padre e ripongo molta speranza nelle nuove prospettive di cura. Così anche quando la malattia comprometterà le funzioni cognitive e, finanche, l’autonomia di mio fratello, l’amore resterà sempre. Noi due non ci separeremo mai”.