Maria ha quasi 51 anni e vive a Roma, nel quadrante Nord Ovest della città. Fino a qualche tempo fa lavorava nel settore amministrativo di un’azienda, che poi è fallita, e attualmente sta cercando una nuova occupazione. Abita al piano di sopra dell’appartamento che sua sorella Francesca, di sei anni più giovane, divide con i suoi genitori. Francesca, che si muove in sedia a ruote, ha l’atassia di Friedreich, una malattia neurodegenerativa genetica che colpisce circa una persona su 50mila, interessa soprattutto gli arti e comporta difficoltà di coordinazione nei movimenti, perdita di sensibilità e debolezza muscolare.
“Che ci fosse qualcosa che non andava ce ne siamo accorti un’estate di molti anni fa, quando aveva 18 anni. Eravamo in Sardegna, lei stava facendo il bagno e non riusciva a uscire dall’acqua”.
“Fino a 26 anni Francesca guidava perfino il motorino, anche se era già instabile nel passo e fino a 35 camminava con l’aiuto del deambulatore”, racconta Maria. “Che ci fosse qualcosa che non andava ce ne siamo accorti chiaramente un’estate di molti anni fa, quando aveva 18 anni. Eravamo in Sardegna, lei stava facendo il bagno e continuava a chiamarmi perché non riusciva a uscire dall’acqua. All’inizio dell’adolescenza, per qualche anno, aveva portato il busto di notte perché, secondo l’ortopedico, aveva un problema con le ginocchia e la schiena. Ma all’epoca non si parlava di atassia, sembrava che si trattasse di scoliosi. Insomma, alcune avvisaglie magari c’erano state, però la malattia non si conosceva e i sintomi non venivano riconosciuti in quanto tali. Per esempio, da ragazza Francesca camminava in modo strano e quando era piccola non aveva mai gattonato, cosa che poi abbiamo scoperto essere un elemento caratteristico dell’atassia di Friedreich”.
“Fu un neurologo dell’ospedale Bambino Gesù a parlare per la prima volta di atassia di Friedreich. Era una cosa troppo grande per noi ed eravamo tutti frastornati”.
“Da bambina Francesca ballava benissimo”, prosegue sua sorella. “Ma quando qualche anno dopo andammo insieme in palestra a fare aerobica non riusciva a coordinare i passi sullo step. Io avevo 20 anni, lei 14, e la cosa faceva ridere entrambe. Fu solo dopo quell’estate in Sardegna che cominciammo a preoccuparci davvero. Tornate a Roma, Francesca andò da un ortopedico che però le consigliò di consultare un neurologo. Così un neurologo dell’ospedale Bambino Gesù parlò per la prima volta di atassia di Friedreich. Poco dopo mia sorella si ricoverò al Policlinico Umberto I dove, dopo 15 giorni e una serie di accertamenti, venne confermato il sospetto. E dopo la scoperta del gene, nel 1996, venne ufficializzata la diagnosi. A quel tempo non ci capivo niente, era una cosa brutta, troppo grande per noi e noi tutti eravamo frastornati. Qualche anno dopo anche a me fecero l’esame del Dna e risultai portatrice sana della malattia, esattamente come entrambi i miei genitori”.
“La psicoterapia mi ha aiutato tanto, bisognerebbe prevedere la figura di uno psicologo per tutte le famiglie, non mi stanco mai di ripeterlo”.
“Io e Francesca abbiamo un ottimo rapporto, io ho sempre cercato di aiutarla e di sostenerla, ma negli ultimi tempi ho cominciato a mettere qualche paletto e lei ne ha risentito”, precisa Maria. “Le cose sono cominciate a cambiare quando ho incontrato il mio attuale compagno, perché non avevo più le stesse priorità. Rimanevo nel vago, quando lei mi chiedeva qualcosa, non rispondevo né sì né no. Oltre un anno fa, poi, ho iniziato ad andare da una psicoterapeuta, che mi ha aiutato a vedere le cose da un altro punto di vista. Ero troppo disponibile con la famiglia e troppo protettiva con Francesca: da un lato, a volte la opprimevo e, dall’altro, rischiavo di rinunciare a vivere la mia vita. Veniva sempre prima lei e poi io, prima le sue esigenze e poi tutto il resto. La psicoterapia mi ha aiutato tanto, bisognerebbe prevedere la figura di uno psicologo per tutte le famiglie, non mi stanco mai di ripeterlo. Per fortuna oggi l’Aisa-Associazione italiana sindrome atassiche fornisce un servizio di questo tipo, ma all’inizio non era così”. Quanto a Francesca, Maria la descrive in questo modo: “È una persona solare, riesce a fare tutto, si muove da sola, lavora, va a cavallo, ha tantissimi amici. A casa poi è molto autonoma, chiede aiuto esclusivamente quando da sola proprio non ce la fa. Sono stata sempre molto protettiva con lei, anche prima della diagnosi, ero sempre troppo disponibile, ho fatto bene a cominciare un percorso di psicoterapia”.
“Ho messo a fuoco questi meccanismi quando è entrata una persona importante nella mia vita. Ci sono state tante discussioni, ma alla fine è stato il mio compagno ad aiutarmi”.
“Facendo psicoterapia ho imparato a pensare di più a me, ma è solo l’inizio di un cammino lungo e difficile. Vivevo dentro di me quest’angoscia costante, avevo sempre il desiderio di far stare bene mia sorella. Per esempio, l’accompagnavo ovunque anche se mi sentivo stanca oppure non andavo in vacanza nel mese di agosto perché lei voleva restare a casa. Il mio compagno voleva partire ad agosto, ma io ero abituata a restare con lei. Ci sono state tante discussioni, ma alla fine è stato lui ad aiutarmi a comprendere meglio me stessa. C’è voluto tempo e non è stato semplice, io ho continuato a non capire a lungo. Anche una mia cara amica mi diceva di non fare sempre quello che voleva mia sorella, ma non insisteva perché io mi irritavo subito. Poi, quando ho cominciato ad andare dalla psicologa, le cose sono cambiate. All’inizio Francesca ha sofferto molto, ma col tempo è diventata più indipendente e ha cominciato a pensare che la psicoterapia avrebbe potuto aiutare anche lei a comprendere meglio il nostro rapporto. È questo il bello di entrambe: siamo disposte a metterci in discussione, in qualsiasi momento. Io però non sono arrabbiata con lei”, riflette Maria. “Se considero che lei, solo per alzarsi dal letto, deve pensare a quale sia il modo migliore per farlo, mi rendo conto che spetta a me farle capire le cose, senza rinunciare alla mia vita. E Francesca, da parte sua, è molto aperta. Non è che pretendesse le cose, per lei era tutto normale, perché eravamo abituate a vivere così. Oggi non abbiamo ancora raggiunto un equilibrio completo, ma ci stiamo lavorando. E appena trovo un nuovo lavoro, torno dalla psicologa. Magari insieme a Francesca, che è una persona a cui piace l’idea di migliorare sempre”.